• Valutazione della prova: verosimiglianza e massime di esperienza possono costituire dimostrazione del fatto, salvo smentita da parte dell’imputato (Cass. Pen. Sez. IV – 22790/18)

    12 Dic 2018 | Sentenze

    In tema di valutazione dei dati indiziari o probatori, il ricorso al criterio della verosimiglianza ovvero alle massime d’esperienza al fine di fornire al dato analizzato valenza di prova è corretto, nella misura in cui possano escludersi ragionevolmente ipotesi alternative che sminuiscano l’ipotesi più verosimile (nel cui caso si dovrebbe qualificare il dato come mero “indizio”, da affiancare ad elementi ulteriori per operare una corretta ricostruzione del fatto). Ove non siano autonomamente formulabili tesi alternative, spetterà all’imputato smentire la ricostruzione operata.

     

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    Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 13 aprile 2018 – 22 maggio 2018, n. 22790

    Presidente Ciampi – Relatore Pezzella

     

    RITENUTO IN FATTO

    1. La Corte di Appello di Milano, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente, M. M., con sentenza del 20/6/2017, confermava la sentenza del GM del Tribunale di Monza, con cui lo stesso era stato condannato alla pena di anni uno e mesi due di reclusione, con sospensione della patente per anni due e mesi sei, in quanto riconosciuto colpevole dei reati, unificati quoad poenam sotto il vincolo della continuazione:

    a) p. e p. dall’art. 189 c. 1 e 6 d.lgs. 285/92 perché, trovandosi alla guida del veicolo tg. C…..G e rimanendo coinvolto in un sinistro stradale con feriti, non ottemperava all’obbligo di fermarsi dandosi alla fuga. In Meda, il 26/09/2010.

    b) p. e p. dall’art. 189 c. 7 d.lgs. 285/92 perché, nelle condizioni di cui al capo che precede, non ottemperava all’obbligo di prestare l’assistenza occorrente a C. S. che, a seguito del sinistro riportava lesioni personali. In Meda, il 26/09/2010.

    2. Avverso la sopra ricordata sentenza della Corte territoriale ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, il M., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen..

    Con il primo motivo, il difensore ricorrente eccepisce vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla identificazione del suo assistito quale conducente del veicolo. Si duole, in particolare, che la Corte di Appello non spieghi mediante con quale criterio, per riprendere la definizione dell’articolo 192 cod. proc. pen., giunga dall’elemento probatorio che il M. è proprietario del mezzo incidentato al risultato di prova, per il quale nella nostra fattispecie, come incardinata nel capo di incolpazione, oltre ogni ragionevole dubbio, il M. guidasse in quel preciso frangente il veicolo di sua proprietà. Deduce che se la massima di esperienza applicata risulta quella per la quale il proprietario sia anche conducente, essa pare debole e non satisfattiva, giacchè risulta notorio come solitamente proprietario e conducente non coincidano, o, quantomeno, possano non coincidere.

    La Corte territoriale non proverebbe, pertanto, la fondatezza del criterio di inferenza utilizzato, usandolo mediante una petizione di principio, ma ciò renderebbe chiaramente apodittica ed immotivata la sentenza impugnata.

    Sotto questo profilo, dunque, la sentenza meriterebbe censura giacché non applicherebbe correttamente il dettato dell’articolo 192 cod. proc. pen. nella parte in cui richiede di dare conto dei criteri utilizzati per addivenire ai risultati di prova contenuti nel provvedimento, ripercuotendosi tale vizio sulla logicità della motivazione, minandone la correttezza.

    Con un secondo motivo deduce vizio di motivazione in relazione alla valenza indiziaria della proprietà del mezzo e violazione dell’articolo 192 comma 2 in tema di pluralità degli indizi.

    Da altra prospettiva rispetto al motivo precedente il ricorrente deduce che la proprietà del mezzo rappresenta indizio del fatto che il M. conducesse il veicolo al momento degli accadimenti criminosi di cui al capo di incolpazione, ma anche da questo angolo visuale il risultato non muterebbe in quanto un unico indizio, isolatamente considerato, non può condurre ad una affermazione di responsabilità.

    Viene richiamata giurisprudenza di questa Corte (Sez. 4 n. 40526/2014 secondo cui ai fini della prova di un fatto e necessario che la sua esistenza sia tratta da più indizi, gravi, precisi e concordanti, non essendo un solo indizio sufficiente a fondare il convincimento del giudice e Sez. 3 n. 38492/2016 che afferma che in tema di illeciti edilizi, il soggetto titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale sul terreno sul quale e stato realizzato l’immobile abusivo non può, per ciò solo, essere ritenuto responsabile o corresponsabile dell’illecito, costituendo l’esistenza di quel diritto soltanto un indizio grave che, a norma dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. deve essere valutato unitamente al complesso di tutte quelle situazioni e comportamenti, sia positivi che negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove di una compartecipazione, anche solo morale, del soggetto medesimo all’esecuzione delle opere, fermo restando che non esiste pero un catalogo predefinito di indizi dai quali tale conclusione possa essere tratta) per rimarcare che la proprietà è semplicemente un indizio non bastevole di per se ad assurgere a risultato probatorio.

    Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con o senza rinvio, con ogni conseguente pronuncia e statuizione di legge.

    CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. Il ricorso è manifestamente inammissibile, in quanto il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata che in questa sede non viene in alcun modo sottoposta ad autonoma ed argomentata confutazione.

    E’ ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; Sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693). E ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608).

    2. I motivi sopra richiamati, peraltro, sono in quanto assolutamente privi di specificità in tutte le loro articolazioni e del tutto assertivi.

    Il ricorrente in concreto non si confronta adeguatamente con la motivazione della Corte di appello, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto – e pertanto immune da vizi di legittimità.

    I giudici di merito, nella loro doppia conforme affermazione di responsabilità, hanno evidenziato che dall’escussione della persona offesa S. C. era emerso che la stessa il 26 settembre 2010, alle ore 00.40 circa, a bordo del proprio veicolo stava tornando a casa da una cena di compleanno a Saronno, quindi arrivava da Seveso e stava andando verso Meda, in via Busnelli. Si era quindi fermata al semaforo, all’altezza dell’incrocio con la ditta Cassina di Meda, e una volta diventato verde il semaforo, era ripartita. A questo punto, girandosi sulla destra, aveva visto un’autovettura arrivare a gran velocità, aveva premuto sull’acceleratore per scansarsi, ma la vettura l’aveva comunque tamponata all’altezza della ruota destra. L’autovettura tamponante non si era fermata, ma a questo punto giungeva una guardia giurata della ditta Cassina, che riferiva alla persona offesa di avere tentato di inseguire l’uomo a bordo dell’auto che aveva provocato la collisione, ma di non essere riuscito nemmeno a prendere il numero di targa, perché la vettura andava troppo veloce. Riferiva ancora la persona offesa che però in mezzo alla strada era stato lasciato il paraurti con la targa attaccata e che a quel punto ella recuperò la targa di metallo e la portò ai C.C. di Meda, i quali riuscirono immediatamente a risalire al nome del proprietario dell’auto, che risultava essere l’odierno ricorrente M. M. . Infine C. S. dichiarava che a seguito del sinistro de quo aveva patito lesioni personali (trauma del rachide cervicale, con prognosi di 7 giorni s.c.) e che la sua autovettura aveva riportato danni quantificati in C 1.900.

    Il teste D. G. I., in sede di sommarie informazioni dallo stesso rese avanti ai C.C. di Meda ed acquisite su accordo delle parti, ebbe dal suo canto a riferire che la sera dell’incidente, verso le 00.30 circa, si trovava in servizio come guardia giurata ed aveva appena terminato un’ispezione alla ditta Cassina; ad un certo punto, mentre era all’esterno della ditta, notò ferma al semaforo, dall’altra parte dell’incrocio, un’autovettura Honda Civic con a bordo una ragazza, la quale fece per impegnare l’incrocio e dirigersi verso via Busnelli, ma venne travolta da un’autovettura, sopraggiunta da via Cadorna, che andava ad alta velocità e tamponò la predetta Honda Civic, che iniziò a ruotare su se stessa, andò a collidere con una centralina e poi rimbalzò sulla protezione dei binari, arrestando la corsa; l’autovettura Opel Astra proseguì la propria corsa in direzione via Seveso, senza assolutamente fermarsi, né rallentare, ma anzi continuando ad accelerare, tanto che il teste provò ad inseguirla, ma giunto ad una rotonda ne perse le tracce.

    A quel punto, il teste D. G. ha riferito di essere tornato sul posto del sinistro per soccorrere la ragazza, che accusava dolori al polso e alla testa, e notò che sull’asfalto era rimasto il paraurti anteriore dell’auto che si era allontanata, con la targa C…..G attaccata.

    Sulla dinamica dei fatti, pertanto, i giudici del merito hanno potuto contare sulle deposizioni di due testi, uno peraltro completamente estraneo alla vicenda, pienamente concordanti.

    Non vi è dubbio, pertanto, che vi fu un incidente provocato da un’autovettura Opel Astra che ebbe a collidere con l’Honda Civic a bordo della quale vi era, alla guida, S. C., che riportò delle lesioni personali. E che il conducente dell’Opel Astra si allontanò repentinamente senza fermarsi.

    3. A fronte di tali fatti il ricorrente contesta, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, che sia stata raggiunta la prova che alla guida dell’autovettura in questione vi fosse M. M. .

    A tale identificazione – è pacifico- si giunse risalendo al proprietario dell’auto cui era abbinata la targa metallica che l’autovettura tamponante perse sul luogo del fatto.

    L’accusa ha versato in atti, nel corso del giudizio, il verbale di restituzione della targa all’imputato, redatto in data 28/9/2010, ove si legge testualmente “è presente M. M. … al quale viene restituita la targa C…..G, appartenente alla propria autovettura modello Opel Astra di colore grigio”.

    Alla luce di tale compendio probatorio, i giudici del merito hanno concordemente ritenuto convalidate le ipotesi accusatorie contestate al M. ai capi A) e B) dell’imputazione.

    Osservava già il giudice di primo grado che a tale conclusione recava l’esame globale degli elementi probatori acquisiti, ed in particolare: 1. il dato oggettivo della proprietà del veicolo de quo in capo all’imputato, come emerso per tabulas dal verbale di restituzione della targa in data 2 8/9/2010; 2. il fatto che l’odierno ricorrente si fosse recato presso i C.C. di Meda, successivamente al verificarsi del sinistro in oggetto, ed avesse ritirato la targa che il predetto aveva perso a seguito dell’incidente, palesando in tal modo la sua disponibilità del veicolo; 3. il silenzio serbato dall’imputato nel procedimento di primo grado su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo (posto che a fronte del dato inequivoco costituito dal coinvolgimento del proprio veicolo nel sinistro in questione l’imputato aveva l’onere di controdedurre argomenti di segno diverso).

    Dal suo canto la Corte territoriale, con motivazione logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto – e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità- ha evidenziato che l’imputato non è stato identificato sul luogo del sinistro proprio a causa della sua condotta di fuga, ma la circostanza, che egli fosse proprietario dell’auto che ha cagionato l’incidente (circostanza indiscussa, essendo stata la targa rinvenuta sul posto, ove era rimasta a seguito del sinistro) è elemento di univoco significato accusatorio, a fronte del quale il M. non ha fornito alcun elemento di segno contrario (non ha neppure semplicemente controdedotto che l’auto fosse in uso ad altri, nel al momento in cui gli e stata riconsegnata la targa, ne in seguito, nel corso del giudizio). E, condivisibilmente, ha ritenuto che tale osservazione non comporti alcuna violazione del diritto al silenzio dell’imputato, in quanto, a fronte di indiscussi elementi probatori forniti dall’accusa, è evidentemente interesse ed onere dell’imputato indicare eventuali elementi idonei a prospettare una possibile ipotesi alternativa.

    4. Ritiene in proposito il Collegio che vada chiarito che il reato c.d. “di fuga” è quello, per definizione, nel quale, nella maggioranza dei casi, a meno di una resipiscenza successiva ai fatti, manca la prova diretta dell’identificazione del conducente dell’auto.

    Quando ci si trova di fronte ad un processo per tale reato sono le successive indagini di PG a fornire la prova, per lo più indiziaria, circa l’identità di colui che era alla guida del mezzo poi datosi alla fuga.

    La tesi proposta in ricorso sembra negare credito alla prova indiziaria e vorrebbe provato il reato che ci occupa esclusivamente nel caso in cui qualcuno identifichi direttamente il soggetto che era alla guida. Ma così non è.

    Come correttamente già ricordava il GM del Tribunale di Monza, sin da epoca risalente, questa Corte di legittimità ha chiarito che l’esistenza di un fatto può essere desunta anche da circostanze certe attraverso le quali, sulla base di norme e di regole di comune esperienza, si può risalire alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del sillogismo giudiziario previsto dall’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen.” (cfr. Sez. 1, n. 1718 del 21/12/1999 dep. il 2000, Widman, Rv. 215343

    Già nel 1992 le Sezioni Unite di questa Corte spiegavano che l’indizio è un fatto certo dal quale, per interferenza logica basata su regole di esperienza consolidate ed affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del cosiddetto sillogismo giudiziario. E che è possibile che da un fatto accertato sia logicamente desumibile una sola conseguenza, ma di norma il fatto indiziante è significativo di una pluralità di fatti non noti ed in tal caso può pervenirsi al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi applicando la regola metodologica fissata nell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. (Sez. Un. n. 6682 del 4/2/1992, Musumeci, Rv. 191230).

    Peraltro – precisavano ancora le Sezioni Unite Musumeci – l’apprezzamento unitario degli indizi per la verifica della confluenza verso un’univocità indicativa che dia la certezza logica dell’esistenza del fatto da provare, costituisce un’operazione logica che presuppone la previa valutazione di ciascuno singolarmente, onde saggiarne la valenza qualitativa individuale. Acquisita la valenza indicativa – sia pure di portata possibilistica e non univoca – di ciascun indizio deve allora passarsi al momento metodologico successivo dell’esame globale ed unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio può risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, di tal che l’insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto; prova logica che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del cosiddetto libero convincimento del giudice (Sez. Un. n. 6682 del 4/2/1992, Musumeci, Rv. 191230).

    In altra pronuncia anch’essa risalente, ma attuale nei principi affermati, si chiarì che a fronte della molteplicità degli indizi, il giudice deve procedere, in primo luogo, all’esame analitico di ciascuno di essi, qualificandone i connotati individuali di precisione e gravità, e poi alla sintesi finale, collegandoli tutti ad una sola ipotesi di fatto e collocandoli armonicamente in un unico contesto, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili l’esistenza del fatto incerto, provato secondo lo schema del sillogismo giudiziario (Sez. 1, n. 2226 del 2/2/1996, Monaro ed altro, Rv. 203895). E, più di recente, ribadito il principio, si è nuovamente sgombrato il campo da qualsiasi dubbio circa il fatto che il giudizio di colpevolezza, che superi ogni ragionevole dubbio, ben può essere sostenuto da un compendio probatorio di natura indiziaria, intendendosi per tale un complesso di prove esclusivamente indirette, purché queste possano essere significative al pari della prova rappresentativa, e ciò che qualifica l’indizio non è né la fonte né l’oggetto della prova ma il suo contenuto ed il suo grado di persuasività (Sez. 1, n. 47250 del 9/11/2011, Livadia, Rv. 251502).

    5. In un caso come quello che ci occupa, pertanto, il giudice di merito era chiamato – e lo ha fatto argomentatamente – ad operare un apprezzamento unitario degli indizi, per verificare la loro confluenza verso un significato univoco.

    Correttamente la Corte territoriale, dunque, rileva che nella valutazione probatoria giudiziaria – così come, secondo la più moderna epistemologia, in ogni procedimento di accertamento (scientifico, storico, etc.) – è corretto e legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle massime di esperienza, ma, affinché il giudizio di verosimiglianza conferisca al dato preso in esame valore di prova, è necessario che si possa escludere plausibilmente ogni alternativa spiegazione che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile. Ove così non sia, il suddetto dato si pone semplicemente come indizio da valutare insieme a tutti gli altri elementi risultanti dagli atti. (Sez. 1, n. 4652 del 21/10/2004 dep. il 2005, Sala ed altri, Rv.230873 che, in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto corretta la motivazione della sentenza impugnata che aveva attribuito al movente di un omicidio indicato dalla accusa pubblica valore solamente indiziante e non di elemento di prova autosufficiente, in considerazione della presenza di altre possibili causali)

    In tema di valutazione della prova – si legge condivisibilmente nella sentenza impugnata- il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d’esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile, ponendosi, in caso contrario, tale dato come mero indizio da valutare insieme con gli altri elementi risultanti dagli atti (Sez. 6, n. 5905 del 29/11/2011 dep. il 2012,Brancucci, Rv. 252066 conf. Sez. 6, n. 49029 del 22/10/2014, Leone ed altri, Rv. 261220).

    Non c’era – come si sostiene in ricorso – il solo dato della proprietà di quel veicolo che, inequivocabilmente, avendo colà perso la targa, era quello coinvolto nell’incidente con successiva fuga. C’è l’altro elemento determinante che l’odierno ricorrente si è presentato ai CC ed ha ritirato le targhe senza nulla obiettare e senza indicare in alcun modo che l’auto in questione non fosse nella sua disponibilità. Né egli ha mai sostenuto in giudizio che non lo fosse.

    Ha ragione la Corte territoriale nel ritenere che tale osservazione non comporta alcuna violazione del diritto al silenzio dell’imputato, in quanto a fronte di indiscussi elementi probatori forniti dall’accusa era evidentemente interesse ed onere dell’imputato indicare eventuali elementi idonei a prospettare una possibile ipotesi alternativa.

    In un precedente riguardante un caso del tutto sovrapponibile a quello che ci occupa (Sez. 7 ord. 13285/2010, Galliani, non mass.) questa Corte di legittimità è condivisibilmente pervenuta alla declaratoria di inammissibilità del proposto ricorso richiamando il sopra ricordato arresto giurisprudenziale costituito dalla sentenza 4652/04 Sala e ritenendo raggiunta la prova che l’imputata fosse alla guida dell’autovettura investitrice dalla convergenza dei dati della titolarità del veicolo e dalla sua disponibilità poco dopo il fatto. Tali circostanze, unite alla mancata indicazione di una sua inabilità alla guida (per l’età) e di eventuali altri soggetti legittimati all’utilizzo del mezzo, hanno consentito in quel caso di ritenere coerente e logica la conclusione del giudice di merito che aveva indicato nella imputata la conducente dell’auto investitrice della bicicletta.

    A ben guardare, nel nostro caso c’è molto di più.

    6. Va rilevato che alla data odierna il reato non risulta prescritto in ragione delle due sospensioni della prescrizione determinatesi ex lege per i rinvii delle udienze dal 17/2/2015 al 9/6/2015 e dal 1/12/2015 al 31/3/2016 per astensione degli avvocati.

    In ogni caso non potrebbe porsi in questa sede la questione di un’eventuale declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso. La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen (così Sez. Un. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. Un., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv. 231164, e Sez. Un. n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, rv. 256463).

    7. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo

    PQM

    Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila alla cassa delle ammende.

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