Estorsione: commette il reato il datore di lavoro che minaccia il dipendente di licenziamento per fargli firmare la busta paga (Cass. Pen. Sez. II – 45413/18)
9 Ott 2018 | Sentenze
Integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che minaccia (anche implicitamente) di licenziamento il dipendente al fine di ottenere la firma di una busta paga riportante un importo corrisposto superiore a quello effettivamente erogato.
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Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 20 luglio 2018 – 9 ottobre 2018, n. 45813
Presidente Cervadoro – Relatore De Santis
RITENUTO IN FATTO
1.Con l’impugnata sentenza la Corte d’Appello di Palermo, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Sciacca che aveva riconosciuto l’imputato colpevole del delitto di estorsione in danno di A. A., assolveva il Todaro limitatamente alle condotte ascrittegli dal gennaio 2008 al 3 giugno successivo, confermava il giudizio di penale responsabilità per i fatti estorsivi consumati tra il gennaio 2006 e il dicembre 2007 e il trattamento sanzionatorio nella misura di anni tre mesi quattro di reclusione ed euro mille di multa.
2. Ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, Avv.B. L., deducendo i seguenti motivi, enunziati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp.att. cod. proc. pen.:
2.1 la violazione di legge e il vizio della motivazione con riguardo al giudizio di responsabilità per il reato ascritto al capo B). La difesa lamenta che, seguito della parziale assoluzione pronunziata per le condotte pretesamente estorsive consumate dal gennaio 2008, fondata sulla riscontrata corrispondenza fra le retribuzioni indicate in busta paga e quelle versate alla p.o. A., la Corte territoriale ha omesso di rivisitare il giudizio d’attendibilità del denunziante, inficiato dalle risultanze della produzione documentale della difesa che attestano la fallacia dell’assunto del primo giudice, mutuato dalle dichiarazioni della p.o., secondo cui le somme percepite non avevano mai raggiunto gli importi previsti in busta paga. Inoltre, la sentenza impugnata ha omesso di considerare gli ulteriori profili di contraddittorietà del narrato della p.o. evidenziati nella memoria depositata in data 29/11/2017 e concernenti il contenuto dei verbali redatti in sede di conciliazione dai quali emerge che nessuno dei dipendenti, compreso l’A., aveva rappresentato minacce di licenziamento da parte dell’imputato al fine di indurlo alla sottoscrizione di buste paga d’importo superiore al salario corrisposto nonché le deposizioni dei testi A. e S. che in dibattimento hanno negato di aver subito minacce dal prevenuto. La difesa rileva, inoltre, che la sentenza impugnata ha ritenuto integrata la fattispecie estorsiva valorizzando la minaccia implicita della mancata assunzione del lavoratore ove questi non avesse accettato la corresponsione di importi decurtati, firmando tuttavia buste paga che documentavano il corretto trattamento salariale, sebbene la paventata condotta di carattere omissivo, in assenza di un obbligo giuridico di provvedere all’assunzione, non può assumere alcuna rilevanza ai fini dell’integrazione dell’ipotesi ex art. 629 cod.pen., tanto più ove si consideri che la sottoscrizione delle buste paga difformi era stato oggetto di un accordo liberamente assunto dal lavoratore all’atto dell’instaurazione del rapporto. L’interpretazione avallata dalla Corte territoriale si pone in tensione con il principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione e all’art. 7 CEDU in quanto dilata significativamente l’ambito del precetto penale fino a ricomprendervi la minaccia della mancata assunzione pur non rinvenendosi nell’ordinamento il correlativo diritto;
2.2 la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art. 597, comma 3, cod.proc.pen. in quanto la Corte territoriale, pur avendo assolto l’imputato da parte delle condotte estorsive contestate, ha lasciato immutata la pena inflitta in primo grado, con conseguente violazione del divieto di reformatio in pejus.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il primo motivo di ricorso non merita accoglimento siccome palesemente infondato. La Corte distrettuale ha disatteso il gravame difensivo con ampia e persuasiva motivazione che dà conto dell’attendibilità dell’A. e degli elementi di conferma al suo narrato provenienti dalle deposizioni dei testi C. E. e A. G. i quali hanno -conformemente al denunziante- descritto il clima di sostanziale sudditanza dei lavoratori nei confronti del T. e la diffusa prassi di richiedere la sottoscrizione per quietanza di buste paga d’importo superiore al salario effettivamente corrisposto.
Né hanno pregio le doglianze intese a confutare la ravvisabilità di una minaccia giuridicamente rilevante nella prospettazione – implicita o esplicita- di licenziamento nell’ipotesi di rifiuto a sottoscrivere le buste paga. La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, chiarito che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate (Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017, Tessitore, Rv. 269905; n. 677 del 10/10/2014, Di Vincenzo, Rv. 261553; n. 36642 del 21/09/2007, Levanti e altro, Rv. 238918).
Inesatto s’appalesa, inoltre, l’assunto difensivo secondo cui la minaccia implicita farebbe riferimento alla mancata assunzione del lavoratore, condotta asseritamente inesigibile e insuscettibile d’integrare la fattispecie contestata. Invero, a parte il rilievo che nel delitto di estorsione anche la prospettazione di un non “facere” può integrare l’elemento costitutivo della minaccia (Sez. 1, n. 6119 del 11/12/2013 , Muhammad, Rv. 259016), nella specie l’A. era stato regolarmente assunto con contratto a tempo indeterminato con l’accordo che lo stipendio erogato per i primi sei mesi non sarebbe stato quello previsto in busta paga e che successivamente il trattamento salariale sarebbe stato regolarizzato, condizioni accettate dal denunziante in considerazione delle necessità di sostentamento della famiglia. La p.o. ha- tuttavia- precisato ( pag. 2 sent. Tribunale) che, allo scadere del periodo convenuto, alla richiesta di integrale versamento delle sue spettanze, il T. aveva negato l’adeguamento asserendo che se non gli stava bene poteva andarsene ovvero che se non avesse accettato le condizioni imposte l’avrebbe licenziato.
Le risultanze probatorie sono state, dunque, correttamente valutate dalla sentenza impugnata che ne ha dato conto con il supporto di una motivazione esente da aporie e illogicità manifeste sicchè le doglianze proposte non superano il vaglio d’ammissibilità.
4. Palesemente infondata s’appalesa anche la censura in punto di trattamento sanzionatorio di cui al secondo motivo di gravame. Invero, la Corte d’Appello, pur avendo mandato assolto il ricorrente dagli episodi estorsivi contestati a far data dal gennaio 2008, incidendo quindi sulla portata del reato continuato contestato al capo B), ha mantenuto ferme le statuizioni di condanna, senza eliminare le frazioni di pena riferibili alle condotte ritenute insussistenti.
Nondimeno, siffatta mancanza non è in questa sede censurabile in quanto la Corte territoriale non poteva emendare la pena nel senso anzidetto poiché il primo giudice ha omesso l’irrogazione della pena a titolo di continuazione, determinandola nella misura di anni tre mesi quattro di reclusione ed euro 1000,00 di multa, operando sulla pena base di anni cinque ed euro 1400,00 la sola riduzione per le attenuanti generiche.
A fronte di una pena erroneamente determinata, stante l’evidenza della continuazione tra tutte le ipotesi estorsive mensilmente consumate per effetto della pretesa sottoscrizione di buste paghe difformi dal salario corrisposto, e non rettificabile in assenza di impugnazione del P.g., la Corte territoriale si trovava nella giuridica impossibilità di ridurre la pena inflitta, quantificata ai minimi e senza aumenti ex art. 81 cod.pen. Pertanto, nella specie non è ravvisabile la denunziata reformatio in pejus in considerazione del trattamento punitivo determinato dal primo giudice, di sicuro favore per il ricorrente, sanzionato per uno solo degli episodi estorsivi ascrittigli nonostante la condanna per plurimi fatti in continuazione, presupponendo l’applicazione dell’art. 597, comma 3, cod.proc.pen. che la diminuzione di pena che consegue all’accoglimento del gravame incida sul trattamento sanzionatorio relativo al capo riformato (nella specie inesistente), come reso palese dall’uso dell’avverbio “corrispondentemente”, e non indifferentemente sulla pena inflitta.
5. Pertanto, alla stregua delle considerazioni che precedono, deve emettersi declaratoria d’inammissibilità del ricorso con conseguente condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria precisata in dispositivo, non ravvisandosi ragioni d’esonero.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.