Millantato credito e traffico illecito di influenze: il margine è dato dalla effettiva esistenza di un rapporto con il pubblico ufficiale (Cass. Pen. Sez. VI – 53332/17)
23 Nov 2017 | Sentenze
Il margine differenziale tra la fattispecie di millantato credito ex art. 346 c.p. e quella titolata “traffico illecito di influenze” ex art. 346bis c.p., introdotta con L. 190/2012, è costituito dall’effettiva esistenza di un rapporto di relazione tra il soggetto che induce o propone la mediazione illecita ed il pubblico ufficiale che dovrebbe porre in essere l’atto; nella prima ipotesi il rapporto è inesistente e, per l’appunto, “millantato”, mentre nel secondo caso il rapporto è effettivamente esistente, consistendo la condotta in una amplificazione della capacità relazionale o di influenza connessa a tale rapporto.
Nel caso del millantato credito, altresì, il soggetto raggirato è vittima del reato e pertanto qualificabile come persona offesa, mentre nel caso del “traffico illecito di influenze” il soggetto al quale viene rivolta la proposta illecita è imputabile a titolo di concorso nel reato qualora accetti la proposta di illecita mediazione o influenza.
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Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 27 settembre 2017 – 23 novembre 2017, n. 53332
Presidente Paoloni – Relatore Giordano
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Ancona ha confermato la condanna di E. T. alla pena di anni uno di reclusione. Il T., in qualità maresciallo dei Carabinieri in servizio presso la Stazione di Reggio Emilia Principale al quale il M. aveva presentato una denuncia, aveva ottenuto il 21 gennaio 2012 da U. M. la somma di euro mille (rispetto a quella maggiore richiesta di euro 2.600), millantando di dovere comprare il favore del sostituto procuratore della Repubblica che aveva in carico il procedimento relativo alla denuncia, procedimento che, altrimenti, sarebbe rimasto fermo, con conseguente ulteriore fermo delle vetture in sequestro per le quali il denunciante aveva interesse alla restituzione.
2. Nella sentenza impugnata si dà atto che, rispetto alla qualificazione giuridica dei fatti, sostanzialmente incontroversi, operata dal giudice di primo grado, secondo il quale la condotta era sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 346 bis cod. pen., la vicenda andava, più propriamente, ricondotta alla fattispecie di cui all’art. 346 cod. pen.. La Corte territoriale ha premesso, in fatto, che il maresciallo T. aveva riferito al M. di avere parlato della denuncia con il magistrato inquirente; che gli aveva, altresì, rappresentato che la situazione avrebbe potuto sbloccarsi verso il pagamento della somma di duemilaseicento euro e che, in occasione della consegna della somma di mille euro, gli aveva espressamente ribadito che il magistrato avrebbe dato corso, con maggiore solerzia alla denuncia sporta dal M., che, in caso contrario, sarebbe rimasta ferma. Ciò che rileva, conclude la sentenza impugnata, ai fini della ritenuta qualificazione giuridica della condotta come delitto di millantato credito, e che costituisce la differenza di tale fattispecie rispetto al delitto di traffico di influenze illecite, non è la esistenza di un effettivo rapporto tra l’agente ed il soggetto pubblico ma la rappresentazione esplicita, da parte dell’imputato, della corruttibilità del magistrato inquirente, nel caso fatta intendere al M..
3. Con i motivi di ricorso, sottoscritti personalmente e di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., il T. denuncia: 3.1 il vizio di violazione di legge per la ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 346 cod. pen., poiché la esistenza di una relazione di ufficio tra il maresciallo T. e il magistrato inquirente, che sul punto non era mera una mera vanteria del T., costituisce il discrimen tra le fattispecie previste dall’art. 346 bis cod. pen.; 3.2 la violazione del principio del favor rei, che la diversa qualificazione giuridica del fatto in grado di appello ha comportato; 3.3 la contraddittorietà tra dispositivo della sentenza impugnata – nella quale si conferma la sentenza di primo grado – e la motivazione della stessa sentenza nella quale viene operata la disposta modifica della contestazione; 3.4 la mancata applicazione delle circostanze di cui all’art. 346 bis, comma 5 e 62, n. 4 cod. pen. in presenza di un lucro di importo decisamente esiguo e di indici della condotta – il rapporto di amicizia con la persona offesa – che connotano il fatto in termini di speciale tenuità; 3.5 la mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena che, anche tenuto conto della pregressa condanna alla pena di mesi sei di reclusione inflitta al T. con sentenza del Tribunale di Belluno del 25 ottobre 2005, non supera i limiti di cui all’art. 164 cod. pen.. L’effetto della subita detenzione in carcere e la ritrovata stabilità economica e lavorativa dell’imputato conducono ad una positiva prognosi sulla commissione di ulteriori reati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. E’ fondato il primo motivo di ricorso con la conseguenza che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con riguardo alla qualificazione giuridica del fatto, da sussumere nella fattispecie di traffico di influenze illecite aggravato, ai sensi degli artt. 346 bis cod. pen.. Sono infondati, per aspetti anche manifesti, gli ulteriori motivi di ricorso.
2. L’esame delle deduzioni difensive comporta, in primo luogo, la disamina degli elementi costitutivi del reato di millantato credito e del delitto di traffico di influenze illecite, figura di reato introdotta dopo la commissione del fatto ascritto al Tagliaferri, onde individuare quali siano gli imprescindibili connotati della condotta che orientano verso la sussunzione del fatto nell’una piuttosto che nell’altra fattispecie incriminatrice.
3.La giurisprudenza di legittimità ha delineato con nettezza, fin dai più risalenti arresti sul punto, l’elemento strutturale del delitto di cui all’art. 346, comma 1, cod. pen. e il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice, individuandoli nel comportamento del soggetto attivo che si concreti in una vanteria, cioè in un’ostentazione della possibilità di influire sul pubblico ufficiale che venga fatto apparire come persona avvicinabile, cioè sensibile a favorire interessi privati in danno degli interessi pubblici di imparzialità, di economicità e di buon andamento degli uffici, cui deve ispirarsi l’azione della pubblica amministrazione. Tale condotta, si è precisato, deve indurre a far intendere alla vittima che il millantatore abbia la capacità di esercitare un’influenza sui pubblici poteri tale da rendere i detti principi vani e cedevoli al tornaconto personale, con la conseguenza che alla persona del danneggiato (vera parte offesa, che la norma intende proteggere) deve apparire evidente la lesione del prestigio della pubblica amministrazione che deve emettere l’atto o tenere un dato comportamento, senza che importi che siano individuati i singoli funzionari e i reali rapporti che il millantatore intrattiene con essi (Sez.6, 2645 del 27/01/2000, Agrusti, Rv. 215651).
4. L’accezione della condotta del millantare – che evoca immediatamente all’interprete il fingere, per vanteria, cose non vere – era stata estesa dalla giurisprudenza, rendendo configurabile il delitto di cui all’art. 346 cod. pen., anche all’ipotesi in cui il credito vantato presso il pubblico ufficiale o impiegato sia effettivamente sussistente, ma venga artificiosamente magnificato e amplificato dall’agente in modo da far credere al soggetto passivo di essere in grado di influire sulle determinazioni di un pubblico funzionario e correlativamente di poterlo favorire nel conseguimento di preferenze e di vantaggi illeciti in cambio di un prezzo per la propria mediazione (Sez. 6, n. 11317 del 18/05/1989, Canz, Rv. 181968). Si osservava che, nel delitto di millantato credito, la condotta offensiva ha ad oggetto la vanteria dell’agente di essere nelle condizioni di poter frustrare per personale tornaconto i principi che presiedono all’ azione amministrativa a garanzia della collettività amministrata. Non vengono in discussione né rilevano i rapporti reali o presunti tra l’agente ed il pubblico ufficiale, poiché l’ostentazione di tali rapporti per tornaconto personale definisce la portata offensiva del delitto in esame, essendo essa stessa idonea ad esporre a pericolo l’interesse tutelato. D’altra parte, non può non ritenersi amplificata ovvero esagerata la facoltà di intrattenere rapporti, con il pubblico ufficiale tutte le volte in cui essa venga riferita alla possibilità di determinare l’azione pubblica per il tornaconto personale (Sez. 6, n. 5071 del 04/02/1991, Manuguerra, Rv. 187561).
5.Pacifico, fin dalla più risalente giurisprudenza, era anche il tratto differenziale delle ipotesi di millantato credito previste nei commi 1 e 2 dell’art. 346 cod. pen., ciascuna costituente ipotesi autonoma di reato, determinato non in ragione alla oggettiva destinazione del denaro o altra utilità data o promessa all’agente, ma alla prospettazione che l’agente ne fa al danneggiato e che consiste nel prezzo per la propria mediazione presso il pubblico ufficiale (art. 346, primo comma cod. pen.) ovvero nel costo della corruzione (art. 346, secondo comma, cod. pen.) (Sez. 6, n. 17923 de/ 19/03/2001, dep. 2003, Lamanda, Rv. 224514). Ai fini della sussistenza dell’ipotesi delittuosa prevista dal secondo comma dell’art. 346 cod. pen., si aggiungeva, non è necessaria né la millanteria né una generica mediazione. L’agente infatti non pone ad oggetto della propria pattuizione il proprio intervento, né richiede un compenso per sé, ma adduce come causa della controprestazione il “dover comprare il favore del pubblico ufficiale” ovvero “il doverlo remunerare”. A fronte di tale condotta sono possibili due sole alternative: o il soggetto si appropria delle somme, ed in questo caso deve rispondere del reato di cui all’art. 346 comma 2 cod. pen., o veramente corrompe o tenta di corrompere il funzionario, ed in questo caso dovrà rispondere del reato di corruzione. Quando non vi siano elementi che dimostrino quest’ultima ipotesi, residua la prima, senza che assuma rilevanza né la millanteria del credito né l’eventuale assunta mediazione (Sez. 6, n. 4915 del 02/04/1997 – dep. 27/05/1997, Moschetti F, Rv. 208140).
6.Come noto la legge 190 del 16 novembre 2012 ha introdotto – in adempimento alle indicazioni provenienti dalle Convenzioni Internazionali in materia di corruzione ratificate dall’Italia – la nuova fattispecie di cui all’art. 346 bis cod. pen. che, fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione di cui agli artt. 319 e 319 bis cod. pen., punisce la condotta di colui che, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio. A differenza del millantato credito, inoltre, viene punito anche il soggetto privato che dà o promette il denaro o il vantaggio patrimoniale, sia per il fine della prima parte che per quello della seconda (art. 346 bis, comma 2, cod. pen.). Il privato – si è osservato in dottrina – cessa, così, di essere il malcapitato “compratore di fumo”, beffato nel millantato credito, eventualmente da tutelare sotto il profilo dell’interesse patrimoniale leso, e diviene punibile per il pactum sceleris contratto quale controparte dell’accordo inteso a sfruttare le relazioni del mediatore, che devono dunque esistere in concreto. Dalla figura delittuosa in esame è stata espunta ogni nota di frode od inganno, polarizzando la fattispecie incriminatrice sul disvalore del mercanteggiamento dell’ingerenza nell’attività della pubblica amministrazione con lo scopo di colpire il fenomeno di intermediazione illecita tra il privato e il pubblico funzionario, finalizzato alla corruzione di quest’ultimo. Scomparsa ogni assonanza del delitto in esame con quello di truffa – assonanza che ancora connota il delitto di cui all’art. 346 cod. pen.- , l’art. 346 bis cod. pen. mira a colpire la lesione o messa in pericolo dell’immagine e dell’interesse alla trasparenza della pubblica amministrazione cui fa da sfondo la probità dei suoi funzionari.
7.Le indicazioni ricavabili dal complesso degli obblighi internazionali cui si è voluto corrispondere attraverso la incriminazione della condotta di traffico di influenze; la enunciazione del presupposto negativo del fatto tipico (fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli artt. 319 e 319 ter); la incriminazione anche del soggetto privato che dà o promette denaro, rendono evidente la finalità della norma incriminatrice, intesa a sanzionare un comportamento propedeutico alla commissione di una eventuale corruzione, ratio vieppiù palese ove si rifletta che la figura del trading in influence, nota nel contesto internazionale, secondo la giurisprudenza di legittimità, si poneva al di fuori della tipicità delle norme incriminatrici della corruzione contemplate dall’ordinamento, presupponendo, questa, un nesso tra il pubblico ufficiale e l’atto d’ufficio oggetto del mercimonio e non potendo essere dilatata fino al punto da comprendervi, con una operazione analogica non consentita in materia penale anche la mera venalità della carica (Sez. 6, n. 33345 del 04/05/2006, Battistella; Sez. 6, n. 5781 del 06/11/2006, Simonetti e altri; Sez. 6, n. 8043 del 12/05/1983, Amitrano, non massimate sul punto). Con la introduzione della fattispecie si intende, così, intralciare, mediante una tecnica di tipizzazione anticipata, la realizzazione di condotte concretamente pericolose per i valori del buon andamento e dell’imparzialità dei funzionari della pubblica amministrazione, colpendo uno dei momenti anteriori a quelli dell’adozione, a vantaggio dell’istigatore iniziale, di un atto contrario ai doveri di ufficio o l’omissione/ritardo di un atto di ufficio e, cioè, la sollecitazione o offerta di denaro o altro vantaggio patrimoniale – cioè di benefici economicamente quantificabili – in vista dello sfruttamento di relazioni esistenti con il pubblico agente, momento che normalmente costituisce il primo stadio di una trattativa illecita, rispetto alla quale rimangono irrilevanti sia l’effettivo esercizio dell’influenza sia, a fortiori, il raggiungimento dell’esito voluto dall’istigatore iniziale.
5. Sotto altro aspetto, la collocazione della norma, che segue quella del millantato credito; la prospettazione, da parte dell’agente intermediario, della necessità di esercitare opera di mediazione verso il soggetto pubblico rispetto alle attese e richieste del privato e la stessa scansione della fattispecie incriminatrice, avvicinano la figura delittuosa in esame al reato di millantato credito e pongono la questione della individuazione degli elementi di diversificazione tra le due fattispecie e che, nel caso in esame, alla stregua del diverso inquadramento contenuto nella sentenza di primo grado e in quella di appello, è dato dalla esistenza delle relazioni con il pubblico funzionario o incaricato di pubblico servizio destinatario della mediazione, esistenza della relazione che costituisce il presupposto della mediazione e l’oggetto dello sfruttamento e che è stata valorizzata nella sentenza di primo grado come elemento di rilievo per la sussunzione del fatto nella fattispecie di cui all’art. 346bis cod. pen. e posta a fondamento della mediazione da parte del ricorrente ovvero nella prospettazione della corruttibilità del destinatario della mediazione, rivelatasi del tutto infondata, valorizzata nella sentenza impugnata ai fini dell’inquadramento del fatto nella fattispecie di cui all’art. 346 cod. pen..
6. Rileva il Collegio, che la norma incriminatrice di cui all’art. 346 bis cod.pen., non precisa se il reato sia configurabile anche nel caso in cui la stessa sia effettivamente esercitata nei confronti del soggetto pubblico – in mancanza della promessa o corresponsione alcunché, ricadendosi, altrimenti nella ipotesi della istigazione alla corruzione, in caso di mancata accettazione, ovvero di corruzione, nel caso di accettazione – o debba, invece, restare unicamente a livello di prospettazione, senza che l’intermediario abbia effettivamente ad agire, scelta ermeneutica, quest’ultima, che accentua la funzione della fattispecie in esame di tutela anticipata all’imparzialità della pubblica amministrazione, punendo chi offre e chi acquista una mediazione illecita nei confronti di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio – e, dunque, ne fa commercio – a prescindere che tale mediazione possa diventare episodio corruttivo. Né la norma di cui all’art. 346 bis cod. pen. chiarisce il grado di relazione con il soggetto pubblico, necessario affinché l’esistenza possa ritenersi realizzata: al di là dell’indistinto richiamo alla esistenza, l’aggettivazione sfugge ad una più precisa descrizione, circa l’intensità e la durata, ed è idonea a ricomprendere sia rapporti occasionali e sporadici, sia rapporti stabili e duraturi. E’, però, indubbio che la esistenza della relazione con il soggetto pubblico costituisce il sostrato dello sfruttamento della influenza che l’agente è in grado di esercitare per soddisfare le esigenze di un soggetto che è ben consapevole di dovere comprare i favori del pubblico ufficiale, e che per questa ragione viene punito, sicché è necessario che, nel reato in esame, lo sfruttamento delle relazioni esistenti si leghi in modo inscindibile con la dazione o la promessa del denaro o altro vantaggio patrimoniale, nel senso che lo sfruttamento costituisce la ragione per cui avviene tale dazione o tale promessa atteggiandosi l’uno come risorsa e l’altra come vantaggio. In altre parole, la dazione o la promessa costituiscono il corrispettivo dello sfruttamento di relazioni esistenti e tale sfruttamento in favore del compratore di influenze deve costituire la causa o quanto meno il motivo determinante dell’accordo con l’intermediario. Può, dunque, pervenirsi ad una prima conclusione secondo la quale l’esistenza delle relazioni tra intermediario e soggetto pubblico, che nell’ottica del patto dovranno essere sfruttate, è il presupposto del reato.
8. Ma la realtà della relazione non è da sola sufficiente a connotare la sussistenza del reato poiché, come accennato, la vera causa del negozio illecito tra il mediatore e il soggetto privato interessato è costituita dallo sfruttamento della esistente relazione per determinare, o perlomeno, orientare il comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. Indubbiamente un peso specifico, in termini di capacità di influenza, possiedono alcune relazioni – si pensi alle relazioni di parentela, sentimentali, amicali, di subordinazione o di rapporto lavorativo, presenti al momento del reato – rispetto ad altre, saltuarie, incostanti o desuete, ma pure esse reali, al pari di quelle di chi, occasionalmente e senza alcuna confidenza, incontra il pubblico agente, situazioni, soprattutto queste ultime, che presentano connotati di affinità con le ipotesi di millantato credito esaminate nella giurisprudenza fino all’entrata in vigore della legge 190/2012 nelle quali l’autore del reato aveva un rapporto reale con il pubblico ufficiale e, amplificando artatamente il proprio credito verso di lui, abbia indotto il soggetto passivo a credere di poter ottenere il favore e a riconoscergli il prezzo della mediazione o del corrispettivo dovuto al pubblico ufficiale o incaricato del pubblico servizio per comprarne il favore o remunerarlo.
9. Ne consegue che i rispettivi ambiti delle fattispecie di cui all’art. 346 cod. pen. e 346 bis cod. pen. possono essere così ricostruiti: il traffico di influenze incrimina le condotte nelle quali le relazioni tra mediatore e pubblico agente siano esistenti e reale sia il potere di influenza del mediatore sul pubblico funzionario. Invece il millantato credito incrimina i casi in cui il potere di influenza non ci sia, siano le relazioni esistenti o inesistenti, ma tale potere è ostentato ugualmente dal millantatore, al fine di ricevere un indebito vantaggio da chi, raggirato, è configurato come vittima del reato. Il compratore di influenze, per essere considerato soggetto attivo, deve essere consapevole che il potere di influenza sia esistente e che quindi il pericolo per la disfunzione dei pubblici apparati a suo vantaggio sia obiettivo concretamente perseguibile. Viceversa, la fattispecie di millantato credito verrà in rilievo in tutte le ipotesi in cui il credito sia fasullo e posticcio e, pertanto, non esista né la relazione con il pubblico ufficiale, tanto meno l’influenza.
10. Orbene, passando al caso in esame, rileva il Collegio che è indiscussa la esistenza di una relazione tra il T. ed il magistrato inquirente incaricato della trattazione del procedimento, in ragione del ruolo dell’autore della condotta – addetto all’ufficio denunce e in servizio presso la Stazione di Reggio nell’Emilia e che ha agito in violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione ricoperta secondo la previsione dell’art. 61, n. 9 cod. pen. – ma, soprattutto, reale il potere di influenza del mediatore sul pubblico funzionario, avuto riguardo alla concreta attività che l’odierno imputato aveva svolto, raccogliendo la denuncia del M. poi inoltrata al pubblico ministero per le indagini del caso. Ed è valorizzando tale dato fattuale che la sentenza di primo grado aveva sussunto la condotta del T. nella fattispecie di cui all’art. 346 bis cod.pen., secondo una corretta opzione ermeneutica che va in questa sede confermata a seguito della entrata in vigore della specifica fattispecie incriminatrice che ha enucleato, come elemento tipizzante, il tratto della esistenza di una relazione tra l’agente ed il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, segnando un confine e una cesura con il contiguo delitto di millantato credito anche rispetto alla interpretazione fornita da questa Corte della nozione “allargata” di millanteria. Ed è, in vero, la esistenza della relazione ed il potere di influenza del T. che ha costituito la base della mediazione assolta dall’imputato verso il M. ed il cui sfruttamento costituiva la ragione della dazione da questi erogata come prezzo della remunerazione del pubblico ufficiale, a prescindere dalla estraneità del magistrato inquirente a tutta la vicenda.
11.A fronte di tale assunto non sono viceversa condivisibili le diverse conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza impugnata che ha concentrato l’attenzione esclusivamente sulla prospettazione o rappresentazione della corruttibilità dell’organo inquirente fatta dal T. al M. – falsa, come si precisa nella sentenza impugnata -, pretermettendo completamente l’analisi della esistenza di una obiettiva e reale situazione fattuale nella quale la relazione era esistente, al pari di qualche capacità di condizionare o, comunque, per lo meno di orientare la condotta del pubblico ufficiale da parte dell’imputato. Tale relazione, che costituisce il sostrato dello sfruttamento della influenza che l’agente è in grado di esercitare per soddisfare le esigenze di un soggetto che è ben consapevole di dovere comprare i favori del pubblico ufficiale – e che per questa ragione viene punito nel vigente sistema sanzionatorio, anche se non nella fattispecie in esame ostandovi il principio di cui all’art. 2, comma secondo, cod. pen.- non va confusa con la prospettazione o rappresentazione della corruttibilità dell’organo inquirente fatta dal T. al M., aspetto, questo che incide sulla sussunzione della condotta nella prima ovvero nella seconda delle fattispecie delineate nell’art. 346 bis cod. pen..
12. Deve, pertanto, darsi continuità al principio già affermato nella giurisprudenza di questa Corte alla stregua del quale il delitto di millantato credito si differenzia da quello di traffico di influenze, di cui all’art. 346 bis cod.pen. in quanto presuppone che non esista il credito né la relazione con il pubblico ufficiale e tanto meno l’influenza; mentre il traffico di influenze postula una situazione fattuale nella quale la relazione sia esistente, al pari di una qualche capacità di condizionare o, comunque, di orientare la condotta del pubblico ufficiale (Sez. 6, n. 37463 del 28/04/2017, Benvegna, Rv. 270607). Parimenti, in ragione dell’inquadramento sviluppato al punto 4 del considerato in diritto, va ribadito che le condotte di colui che, vantando un’influenza effettiva verso il pubblico ufficiale, si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione o col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale, condotte finora qualificate come reato di millantato credito ai sensi dell’art. 346 cod. pen., comma 2, devono, dopo l’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, in forza del rapporto di continuità tra norma generale e norma speciale, rifluire sotto la previsione dell’art. 346 bis cod. pen., che punisce il fatto con pena più mite (Sez. 6, n. 4113 del 14/12/2016, Rigano, Rv. 269735).
13. E’ superata dalle argomentazioni fin qui svolte e dalla conclusione alla quale la Corte è pervenuta, la valutazione del secondo e del terzo motivo di ricorso tenuto conto, altresì, che in mancanza di modifica del trattamento sanzionatorio da parte del giudice di appello in corrispondenza della più grave ritenuta qualificazione giuridica del fatto, non era neppure configurabile laviolazione del principio del favor rei tenuto conto, altresì, che l’imputato aveva avuto modo di svolgere tutte le proprie difese, anche con riguardo al delitto di millantato credito, oggetto dell’originaria imputazione contenuta nel decreto che dispone il giudizio. Né è ravvisabile una contraddizione tra il dispositivo della sentenza di appello, che contiene le statuizioni processualmente rilevanti rispettoal petitum rivolto al giudice dell’impugnazione (e che investe, come noto la conferma, riforma o annullamento della sentenza impugnata), il percorso logico argornentativo sviluppato e il potere, riconosciuto al giudice, di qualificare giuridicamente i fatti
14. Sono infondate le censure che investono la mancata applicazione delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. e 346 bis cod. pen. in presenza di un giudizio di fatto, non censurabile per manifesta illogicità, espresso dai giudici del merito con riguardo alla insussistenza delle condizioni che legittimano un giudizio di speciale tenuità del danno patrimoniale cagionato al M., avuto riguardo all’entità della somma pattuita e, comunque, conseguita dal T. e ed alle modalità del fatto, che ha comportato una seria compromissione del prestigio e della credibilità della pubblica amministrazione, anche in ragione del ruolo ricoperto dall’imputato ed al coinvolgimento nell’illecito mercimonio del magistrato inquirente circostanze ostative alla invocata speciale tenuità del danno.
15. Manifestamente infondato è l’ultimo motivo di ricorso. La decisione sulla concedibilità del beneficio della sospensione condizionale della pena rientra, in vero, nelle attribuzioni in massima parte discrezionali e, pertanto, esclusive del giudice di merito, che deve indicare i motivi che giustificano l’uso di tale potere. In sede di legittimità è invece consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento. Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai criteri indicati facendo riferimento, per motivare il diniego sulla richiesta formulata, ai plurimi precedenti penali del ricorrente (e non solo quello indicato in ricorso, per reati di falso) ma anche ad una precedente condanna, per il reato di truffa, oggetto di provvedimento di indulto, con la conseguenza che quella odierna è la terza condanna riportata dal T., valutazione che, essendo congruamente e logicamente motivata, si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità.
PQM
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla definizione giuridica del fatto contestato che qualifica ai sensi degli artt. 346 bis e 61 n. 9 cod. pen. come traffico di influenze illecite aggravato. Rigetta nel resto il ricorso.